Florilegio 21-22

FLORILEGIO DI BIBLIOSCRITTURA – 2021/2022

a cura di Agostino Arciuolo e Benedetta Nanni

1. Alla luce del buon esito del primo laboratorio, anche quest’anno abbiamo scelto di scaldare le dita e le penne con gli stessi stimoli di partenza, due esercizi di “biblioscrittura” consistenti nello stilare un mini-elenco non ragionato di preferenze e avversioni (sulla falsariga del “mi piace/non mi piace” di Roland Barthes) e poi nel rispondere a una domanda di quelle che possono uscire solo dalla voce di un bambino: perché gli uccelli volano? Anche in questa occasione, come in quella scorsa, l’invito è stato di trarre spunto dall’opera di Gianni Rodari (e in particolare dal suo “Libro dei perché”, di cui abbiamo letto qualche stralcio), tentando di rispondere senza porre freni all’immaginazione e però, al contempo, senza nemmeno aggirare la questione. Ecco di seguito alcune delle risposte.

Perché hanno le ali. Immaginate di ritrovarvi della pelle in eccesso che va dalle braccia fino al vostro fianco. Cosa fareste? Sbattereste le “ali”, se non per curiosità, anche solo per stupore. Dopo esservi sollevati di qualche centimetro, capireste come funziona e quando avrete imparato a volare? Non penso continuereste a camminare a meno che non fosse strettamente necessario. Gli uccelli volano perché altrimenti dovrebbero trascinare le loro zampe e tutto il resto del loro corpo in giro. Volano perché l'idea di saltare e di farsi trasportare dal vento è molto più allettante. Volano perché è più veloce e più liberatorio. Volano per dare un senso a quelle ossa e a quelle piume in eccesso che ingombrerebbero soltanto se non potessero sollevarti da terra.  (Arianna Magli)

Un tempo gli uccelli camminavano a quattro zampe, poi hanno guardato in alto e si sono sentiti leggeri. Da quel momento non hanno più rivolto lo sguardo verso terra. Questo però non è successo a tutti, perché chi vola deve essere libero e felice. Il massimo che molti sono riusciti a fare è stato alzarsi su due piedi e desiderare di volare. (Eleonora Sartori)

Magari è la loro forma di libertà. Come la vista notturna è la libertà dei gatti. Come la fedeltà è la libertà dei cani. Come la fantasia è la nostra libertà. (Arianna Serboli)

Gli uccelli, quando un tempo vivevano a terra, si accorsero che lì non sarebbero mai sopravvissuti, così hanno alzato gli occhi e per primi hanno visto nel cielo una possibile casa. Madre natura che, ogni tanto, si sente generosa, ha regalato loro ossa più leggere e braccia più larghe e da quel giorno il cielo è stato loro. (Caterina Zamboni)

Chiedetemi perché gli uccelli volano, e io vi dirò quello che so. So che gli uccelli volano perché hanno le ali. So che gli uccelli volano perché è ciò che ci si aspetta da loro. So che gli uccelli volano perché è la loro natura. Forse volano perché vogliono mostrare a tutti come si fa, cercano semplicemente di insegnarlo anche agli altri esseri viventi. Magari sono vanitosi e cercano di attirare l’attenzione su di sé, così vanno in alto nel cielo, in lungo e in largo solo per farsi notare. Oppure, nessuna di queste motivazioni è quella giusta. Forse, probabilmente, neanche gli uccelli sanno perché volano. Lo fanno e basta. Possono, sanno di poterlo fare, quindi volano. Forse dovremmo farlo anche noi. (Giulia Tori)

Perché ci deve essere qualcuno che guardi quello che le persone fanno nella loro vita in ogni minimo aspetto, da una lacrima versata a una gita in bicicletta e da un cuore spezzato ad un uomo che mangia una carota sul terrazzo di casa scrivendo poesie e fuma la pipa. Credo ci sarà sempre un qualunque uccello che volando, oltrepassando i limiti dei luoghi a noi vicini, vedrà inconsapevolmente i più malinconici e bizzarri pensieri di colui o colei che cammina sulla strada. Li vedrà e non si chiederà nemmeno il motivo, è talmente abituato a sentirne tutti i giorni da non rendersene conto. Senza nessuno che osserva non volendo farlo, si sentirebbe un profondo senso di solitudine, di cui non si capirebbe nemmeno il perché. (Margherita Bertocchi)

2. Uno dei dispositivi più efficaci per sbrigliare la fantasia è, per quanto possa sembrare strano, quello di porre dei vincoli alla propria scrittura: darsi dei limiti costringe a escogitare strade inedite e ad evitare la banalità. Punto di partenza è stato il livello inarrivabile dei sonetti monovocalici di Giuseppe Varaldo, che in “All’alba Sharazad andrà ammazzata” ha riassunto le trame dei grandi capolavori della letteratura, da “Le mille e una notte” alla Commedia, dalla Bibbia all’Odissea a Pinocchio: non solo sonetti impeccabili dal punto di vista metrico, ma costituiti da parole che contenessero tutte una sola e la stessa vocale. Più alla nostra portata i tautogrammi proposti da Umberto Eco in “Povero Pinocchio”: e così abbiamo provato a scrivere i riassunti delle fiabe della nostra infanzia con parole che cominciassero tutte con la stessa lettera, con Cappuccetto Rosso che è diventata Mantella magenta, e Rapunzel una sognatrice che sognava segretamente stelle splendenti…

Magenta la mantella, in mezzo macchie, margherite e mimose raccoglieva. Mentre marciava con un mastino si misura, ma per mangiare marzapane con la madre della madre, al momento giusto non si manifesta. Nella mandibola del mostro era la madre della madre; si mostra un cacciatore, che il mastino martoria, per riportarla alla memoria. (Emma Metastasio)

Due donnacce deformate di decine di secoli dietro denigrarono decisamente dolce damigella di discendenza differente. Dapprincipio delusa, dolce damigella, decorata da dea, decise deliberatamente di dirigersi dalla domus dignitosa del duca. Dovendo dileguarsi, disgraziatamente disertarono delle dita, da dove duca dedusse derivazione. Dolce damigella decise di divenirne donna. (Gian Paolo Sarpi)

Cenerentola, cimentandosi nella cucina, chiede che le concedano di capitare al castello, ma cattivamente cacciata, si chiude in camera. Con contributo di calzari di cristallo il cavaliere conosce Cenerentola, cerca la compagna dalla calzatura cristallina e cambia le condizioni di Cenerentola concludendo con cerimonia. (Giulia Boari)

Una nivea narcisista nascondendosi in un nostalgico nido nanesco non nuocerà alla noverca, che narcotizzerà la nivea narcisista con noia. (Benedetta Trisolino)

Sostava sempre sola nei soliti spazi. Sognava segretamente le stelle splendenti. Senza segnali, la sorprese salendo sulla soglia, una strana sorta di signore. Sentendosi sostanzialmente stanca della stessa situazione di sempre, salpa senza sospetto sulla strada scoscesa dei sogni. (Giulia Tori)

Conosciuto un cane una cagnolina, cupido lo colpì e completamente conquistato fu. Come concordato celermente comparve dalla coppia una cucciolata con cura custodita. Che Crudelia comprarli concupisse, come concepirlo? Cappotti chiazzati crear cercava e centouno cuccioli carpiti aveva. Correre, correre, correre a casa! (Priscilla Cattabriga)

Centinaia di canzoni, cantate con contentezza, cantano correndo di cuori e combriccole che camminavano con costanza, costantemente contemplando colline color castagno, coperte di coltri ciano. Combriccole che camminavano coronando un compito considerevole verso costruzioni colossali di carbone e calore crudo color cremisi, dove centinaia di contese contate con anni, creavano con la cattiveria un anello dorato consegnato al crudele cavaliere dalla cupa copertura corvina. Combriccole composte da componenti curiosi mal composti, costruiti con capigliature contrastanti e corazze cordiali. (Margherita Bertocchi)

Cenerentola condivideva la sua casa con le sue crudeli consorelle, che costantemente la costringevano a curarsi della casa e delle cose altrui. Cenerentola che con comprensione cercava di compiacerle.  Una sera al castello con una celebrazione cercavano una consorte a colui che avrebbe condotto il castello, Cenerentola cercò di convincere la matrigna a partecipare ma non glielo concesse. Cenerentola comunque fu capace di correre al castello e con questa occasione conobbe il coraggioso cavaliere che le carpì il cuore. (Amanda Ghini)

3. Un altro stimolo alla fantasia è quello della riscrittura per variazioni sul tema: in quanti modi può essere descritto un oggetto? Da quanti punti di vista può essere raccontata una storia? Ci hanno fatto da guida in questo incontro Edmond Rostand e l’imprescindibile Raymond Queneau. Del primo abbiamo letto la famosa “tirata del naso” in “Cyrano de Bergerac”. Cyrano risponde allo scortese cavaliere che per offenderlo gli ha detto che il suo naso è “molto grande”, travolgendolo con sedici descrizioni del suo naso secondo prospettive diverse (ammirativo, lirico, patetico, naif, eccetera): anche per offendere ci vuole un po’ di spirito! Nei suoi “Esercizi di stile”, invece, Queneau riscrive in cento modi un piccolo fatterello: all’ora di punta, due persone in metropolitana hanno un alterco; dopo due ore, il narratore rivede uno dei due davanti a una stazione parlare con un amico. Basta cambiare registro, e il racconto di questa insignificante notazione diventa un caleidoscopio di trovate linguistiche. Noi abbiamo scelto la riscrittura in lipogramma, ovvero senza usare una vocale.

Lipogramma in –i: Sulla S, durante l’ora ove tante sono le vetture, un ragazzo dal cappello cascante con una corda al posto del nastro, collo troppo lungo, come se l’avessero allungato. La gente scende. Quel tale attacca verbalmente, ferocemente, un altro passeggero per lo scontro corporeo tutte le volte che passa qualcuno. Appena un posto è sgombro, veloce lo occupa. Passate due ore lo vede nuovamente alla Gare Saint-Lazare, è con un suo compare che appunta una mancanza di bottone sul cappotto. (Priscilla Cattabriga)

Lipogramma in –e: Allora, sulla S un caparbio col-di giraffa-dal-cilindro afflosciato, adornato da una magra cordina dopo l’uscita di vari passanti si arruffa con un disgraziato turista, arrabbiandosi visto il tipo ‘il qual lo avrà spinto’. Lì, in mezzo alla calca, si scambiarono insulti in un modo a dir poco ridicolo, fino all’attimo nel qual la colonna da portico non trova un posto non occupato, fiondandovisi con forza. Dopo un po’ lo ritrovo alla Saint Lazar, proprio il col-di-giraffa: stava parlando con un amico di una svista al soprabito sulla quantità di bottoni sul vestito. (Benedetta Trisolino)

Lipogramma in –i: Sulla fermata del metro verso metà del tempo alla luce del sole, c’era rumore. Un uomo con metà della metà del secolo come età, con un cappello floscio e una corda al posto del nastro, collo molto lungo, come se lo avessero allungato come uno struzzo, stava sulla base delle sue gambe. Scese molta gente, l’uomo ha da parlare con foga e rabbia e lamento con uno poco lontano perché lo urtava quando qualcuno passava. Non appena vede un posto senza nessuno, pone sul posto la sua persona. Due ore dopo lo vedo alla Cour de Rome prontamente verso la fermata San Lazzaro però detto alla francese. È con un conoscente che ripete “andrebbe messo un bottone ancora al sopracostume”. Mostra dove, verso la scavatura, e perché. (Margherita Bertocchi)

Lipogramma in –e: Sulla S, in un'ora di traffico. Un tipo di circa quattro lustri più uno, copricapo floscio con un filo di corda al posto del nastro, collo troppo lungo, sarà stato tirato? Tutti saltano giù. Il tizio di cui vi ho parlato si arrabbia con un vicino. Lo accusa di strattonarlo ogni volta la qual salta qualcuno. Tono accorato, con sottofondo di ostilità. Quando d'improvviso avvista un posto non occupato, vi si butta. Un paio di giri di orologio più tardi lo incontro alla Cour di Roma (mi scuso, non conosco la lingua) davanti alla Gar saint lazzaro. Si trova con un amico, lui gli consiglia di cucir un botton in più al soprabito. Gli mostra il posto (vicino alla sciancratura) e gli illustra il motivo. (Michela Lambertini)

4. Come spiega Emanuele Tesauro nel suo barocco “Cannocchiale aristotelico”, la metafora è la regina delle figure retoriche, e costituisce – col suo potere di unire cose lontane, di creare interazioni inedite e stupefacenti, di far vivere una cosa dentro un’altra, di farci percepire contemporaneamente enti distinti – un “teatro pien di meraviglie”. La metafora, inoltre, coinvolge in modo attivo il lettore, che interpreterà gli accostamenti metaforici in base alle risonanze della sua propria esperienza e della sua propria memoria: una cascata di significati, condivisi e personali, sprigionati da quelle vicinanze inattese. Gesualdo Bufalino è stato il nostro modello con una poesia, tratta da “Amaro miele”, costruita interamente su metafore: “Progetto di lode”, che ha ispirato i nostri testi.

sei la gioia di tua madre

sei gli occhi spalancati in un mondo frenetico

sei la nota stonata nella nona sinfonia

sei la solitudine in una sera d’estate

sei un nastro al collo e l’assenza di aria

sei il tormento dell’aridità di una notte

sei lo strazio di un temporale di pensieri

sei la linea curva in mezzo a tanti triangoli

sei la vanità del mare e l’egocentrismo del sole

sei l’assenza di angoli, la rettilineità di questa città

sei la proibizione di una cerniera lampo

sei l’odore dei ricordi di ciò che hai vissuto

sei il rimpianto e sei il dolore

ma sei l’allegria del vento freddo sulla pelle

sei la staticità di ogni granello di sabbia

sei i geloni ai piedi il sabato sera

sei in ogni luogo a cui riesco a pensare

ma non sei da nessuna parte

sei l’odore rancido della gelosia

sei il sapore aspro della consapevolezza della sconfitta

e sei la corsa contro corrente

e sei la caduta in bicicletta

sei le ferite sulle mani e sulle ginocchia

sei la freddezza della paura

sei i terremoti alle mani

sei la rigidità e la fermezza

ma sei l’impeto delle tue emozioni

sei il pentimento e la flagellazione

e sei bianco e sei nero

e sei l’arcobaleno

sai tutto ciò che non sarai mai ma semplicemente sei

(Michela Lambertini)

~

Tu gaia, sorridente, il mio giullare.

Tu leoncino ingabbiato

La tua vitalità è troppo grande per quel corpicino per te creato.

Tu il mio appoggio, mio cuscino

Mio grande saggio

Il tuo silenzio mi infonde coraggio.

Tu sensibile, empatica, il mio cassetto segreto.

Quando mi accogli con incondizionata gioia,

A qualsiasi ora del giorno,

Sei il mio sole, la mia luce inesauribile.

(Priscilla Cattabriga)

~

Tu amica, partner in vita, in morte e in fantasia

Sei il sorriso più dolce che uno possa ricevere la mattina

L’abbraccio più caloroso in una giornata piovosa, scura, buia

La luce nella galleria più buia che conosca

L’arrivo all’aeroporto dopo una lunga giornata di volo

Sei esattamente quello di cui ho bisogno

Tu, mia dolce, mia cara, mia musa

(Arianna Serboli)

~

Tu bambina, tu rifugio

tu combattente nata per vincere

potente in battaglia

Tu sicurezza che do per

scontata

Tu sole che illumini la mia

giornata

Mente affine alla mia

(Eleonora Sartori)

~

A te, cara tragedia senza fine, dedico questi versi.

Tu, o finta complice,

causa della mia disperazione,

sei il mio triste pensiero fisso.

Dolce chiodo affilato,

come ti odio quando mi entri in una tempia

alle 10 di sera

e l’incertezza del mio destino mi assale.

Oh mio così detestato dubbio irrisolto,

cosa devo aspettarmi quest’oggi da te?

Tu, assurdo giocatore,

sei la causa delle mie notti insonni

passate a pensare,

un’altra volta,

quale carta avrai in serbo per me in questa mano.

A te, mio falso amico,

vorrei solo dire

che ti odio dal profondo del cuore.

(Giulia Tori)

5. Restando in (tema di) metafora, un ulteriore esercizio è consistito nella scrittura in coppie di un dialogo imperniato il più possibile su espressioni metaforiche di uso comune. Il linguista George Lakoff ha parlato al proposito di metafore “congelate” o persino “morte”, a indicare quei modi di dire talmente sedimentati nel linguaggio ordinario da avere perso la loro pregnanza (del tipo: metterci una pietra sopra, cercare il pelo nell’uovo, sputare il rospo e via dicendo). A uno dei due interlocutori è stato chiesto di fare ricorso massiccio a tali forme espressive, all’altro di prenderle invece alla lettera, portando lo scambio su un piano quanto più letterale e, per questo, surreale possibile. Con lo scopo di provare a “scongelare” le metafore “congelate”, e magari ridare vita a quelle “morte”. I risultati sono stati per niente banali e anzi a tratti esilaranti.

~

A: Oggi sono arrabbiata, ma è inutile piangere sul latte versato.

B: Piangere sul latte versato? Suvvia, se vuoi piangere secondo me non è inutile: un bicchiere di lacrime e colorante bianco e hai fatto! A meno che tu non possieda una latteria…

A: Ma cosa stai dicendo? Stai per caso scrivendo con i piedi? Stavo solo parlando per metafore, ci potrei mettere la mano sul fuoco.

B: Ora però mi stai stancando: a parte la faccenda del latte posso capire che le lacrime non abbiano lo stesso gusto, ma abbi pazienza! E poi sì, sto scrivendo con i piedi, ed è per questo che sono lenta e faccio errori ortografici; mi basterà solo un po’ di pratica. Riguardo alla mano sul fuoco mi sembri tu quella inetta: nemmeno un mago ci riuscirebbe senza bruciarsi, e perché scommettere la propria mano su cose così futili?

A: Riguardo alla tua incapacità grammaticale per via dei piedi, terrò acqua in bocca. Non so più che pesci pigliare con te, quando parliamo te le leghi sempre al dito per queste cose, manco fossimo in tribunale. Almeno ci portiamo pure il mago che riesce a bruciarsi la mano e cogliamo la palla al balzo.

B: Grazie per il sostegno su questo esercizio, comunque tranquilla, non serve soffocarsi per darmi sostegno, e in ogni caso ricordati di respirare col naso. Riguardo ai pesci sono brava nella pesca della sogliola e dei granchi; magari potremo un giorno andare a pesca insieme, e comunque hai sbagliato: le uniche cose che mi lego al dito sono gli anelli, e non li lego neppure!! Per non parlare di concetti astratti: ma ti senti? Avresti bisogno di riposo perché ciò non sembra verosimile, sembri molto stressata. Riguardo al mago ho un amico che conosce molti trucchi. Riguardo alla palla al balzo poi non ti comprendo: se vuoi giocare a basket non ti conviene, perché sono una completa frana!

(Arianna Serboli e Benedetta Trisolino)

~

A: Oggi mi sembra di dover fare i salti mortali per stare al passo con quello che devo fare!

B: Ma come non eri impegnatissima? Così perderai solo tempo! 

A: Ovviamente, se facessi i salti mortali invece che studiare mi darei la zappa sui piedi.

B: Ma cosa c'entra la Zappa con la ginnastica? È un nuovo attrezzo? E poi il nostro lavoro di gruppo sei riuscita a finirlo? 

A: Non preoccuparti, ora mi rimbocco le maniche.

B: Sei proprio sfaticata oggi. Qui bisogna lavorare e tu pensi ai vestiti. Che poi non ti viene freddo così? Se ti ammali e non vieni per la presentazione… 

A: Per la presentazione vengo sicuramente, non taglio la corda.

B: Avevi forse preso in considerazione di rovinare il nostro modellino? Ci habbiamo lavorato per tanto tempo.

A: Che orrore! Togli subito l’h e non scrivere con i piedi!

B: E come potrei? Indosso le scarpe.

A: Dai mettiamoci una pietra sopra, ci vediamo domani per la presentazione.

B: Oggi proprio non capisco quello che dici, speriamo solo che domani dirai cose sensate.

(Eleonora Sartori e Caterina Zamboni)

~

P: Ma chi ti credi di essere, abbassa la cresta!

M: Penso tu ci veda male, sai? Sono stata ieri dalla parrucchiera e non mi sono fatta fare nessuna cresta!

G: Sai, penso intendesse dire che devi calmarti. Non sei brava a cogliere la palla al balzo, mi pare.

P: Ma che palla? Non ne vedo volare nessuna. Puoi metterci la mano sul fuoco che l’ho tirata, sei tu che non l’hai presa!

M: Ma quale mano sul fuoco? Sei pazza, finirai per bruciarti. Stai proprio perdendo la bussola…

G: Da quando possiedi una bussola? E poi perché la stai usando adesso? Siamo al parco! È vero che riesci a perderti anche in un bicchier d’acqua, però così mi sembra eccessivo.

P: Guarda, per quando ne so, l’acqua è trasparente. Mi sembra difficile potersi smarrire lì in mezzo, e poi probabilmente affogherei prima di poter rendermene conto. Smetti di stare con la testa fra le nuvole e parla seriamente!

M: Scusa non capisco cosa ti prenda: la testa la sento ben attaccata al collo come sempre. Stai proprio dando i numeri!

G: In che senso starei ‘dando i numeri’? Io a tombola ci gioco solo a Natale! Mi sembra che tu abbia fatto un bel buco nell’acqua, altroché!

M: Ragazze direi che è ora di metterci una pietra sopra e parlare d’altro.

P: Una pietra sopra a cosa scusa? Mi spiace per qualsiasi cosa sia, non vorrei essere sovrastata da un masso. Comunque sputa il rospo, dimmi cos’è!

G: Ma intendeva solamente di chiuderla qui, ovviamente! Di che rospo parli tu, piuttosto? E poi perché lo dovresti sputare? Dai, ascoltiamo il consiglio e smettiamo di parlare al vento.

(Giulia Tori, Michela Lambertini e Priscilla Cattabriga)

6. L’errore grammaticale è quanto di più funesto possa capitare nella vita scolastica di uno studente. Sottolineature policrome costellano l’infanzia e l’adolescenza di chiunque. Eppure talvolta anche l’errore, la sgrammaticatura, lo strafalcione possono costituire spunti fantasiosi, nient’affatto da correggere e anzi da approfondire, e sulla cui scia dare vita a creazioni e idee potenzialmente degne del massimo interesse. La scrittura creativa, d’altro canto, si è sempre nutrita di errori: basti pensare al celebre “Ho nuotato fino alla riga” di Elisabeth Bing, antesignana dei laboratori espressivi per l’infanzia, che trasse ispirazione, per il titolo, proprio dall’errore di un suo allievo; oppure all’altrettanto noto “Libro degli errori” di Gianni Rodari (ancora lui, imprescindibile) e alla sua capacità di creare poesia a partire da una lettera in più o in meno, da un apostrofo mancante come da un segno di troppo sulla pagina. Compito dei biblioscrittori è stato, pertanto, di “sbagliare apposta”, ovvero di partire da uno o più errori, di quelli che magari si commettono frequentemente, e provare qui a coglierli come occasione di scrittura.

Mi capita spesso di ritrovarmi sulle rive del po’ e ogni volta che accade sento la voglia di buttarmi tra le sue onde. Non è mia intenzione in realtà, mi sforzo di restare coi piedi per terra e di usare tutta la fermezza che ho. È quasi come cercare di aggrapparmi a un filo d’erba, a una radice che sembra attaccata ma non lo è più. Apro gli occhi e mi ritrovo sulle rive del po’. Dietro di me la razionalità mi urla di fermarmi, impreca, mi trascina per le braccia e mi tira verso di sé. Cerca disperatamente di trattenermi al di là del po’. Perché lei lo sa che in fondo mi pentirò di aver nuotato, sentirò freddo, avrò i brividi e vorrò non essermi tuffata. Ma non le do ascolto. La follia mi chiama dall’altra riva. Mi persuade con parole dolci e promesse. Urla: “Di cos’hai paura! Se non rischierai ora non lo farai mai più. Te ne pentirai. Raggiungimi”. Così mi lascio offuscare la vista. E mi abbandono completamente. Lascio la sicura sponda del po’ e mi lancio a capofitto raggiungendo l’altra riva, quella del troppo. Sento già salire la febbre. (Michela Lambertini)

Un giorno un ragazzino che aveva appena iniziato le scuole elementari chiese aiuto al fratello, più grande di lui di qualche anno e dunque “teoricamente” più istruito, poiché il maestro di geografia gli aveva assegnato come compito l'approfondimento di un paese europeo. Il fratello gli disse senza esitazione: «Devi assolutamente parlare della Repubblica Cieca!» «Cos'è la Repubblica Cieca?» «È un paese dove la luce non esiste, come se il sole si fosse dimenticato della sua esistenza». «Non hanno scoperto il fuoco e nemmeno hanno inventato l'elettricità. Nessuno riesce ad orientarsi, perché c’è sempre buio e non si riesce a vedere più in là di due palmi di naso. Per questo è impossibile uscirne». «Interessantissimo. Ma tu come fai a saperlo?» «Beh, quando avevo la tua età a scuola mi fecero imparare a memoria tutti gli stati dell'Europa, e io lessi per la prima volta il nome di questo paese. Il resto l'ho intuito». «Ma quindi la storia che mi hai raccontato sei sicuro che sia vera?» «Ma certo che è vera. Secondo te perché si chiama Repubblica Cieca? Perché laggiù non si vede nulla. È logico, no?» «Certo, hai ragione». Il giorno seguente il ragazzino tornò a casa e il fratello gli domandò: «Allora come è andata? Hai seguito i miei consigli?» «Sì». «E quanto ti ha dato il maestro?» «Mi ha dato 4 in geografia e 10 in immaginazione!» (Gian Paolo Sarpi)

Ieri notte feci un sogno molto strano: passeggiavo per un villaggetto a dir poco singolare; costellato da fruttetti era cosparso di tegole rossastre, per non parlare degli alberi di però, che pero a far le pere non si decidevano; e dei peschi pesci, di volta pieni di pesche, in volta pieni di pesce. Questo villaggetto, devo ammetterlo, mi ha affascinato, così ho dato un’occhiata al centro, dove ho scorto i negozi dell’ustrascarpe e del lortolano. Pensate, a teatro c’era pure un orcastra, che ad ascoltare tutte le notte finivi per far note. Purtroppo, a quel punto mi svegliai, accendendo gli innumerevoli lucci attorno al letto. (Benedetta Trisolino)

Il bambino dal cappello blu camminava di fianco a quello con il cappello giallo. Non si sa perché portassero i cappelli così stravaganti, però faceva freddo. Il cielo era pieno di luci di natale, belle colorate e vivaci. Molte persone camminavano tra le bancarelle e il profumo di zucchero e caramello. Ad un tratto uno dei due disse “che lucci!”, e tutta la luminaria rossa, bianca e verde diventò pesci di tali colori. Pesci, enormi e a pois, che si dibattevano agitati. Ed erano talmente grandi, che uno cadde in testa ad una bella signora dal cappotto color notte e un cappellino color stelle. Lei gridò, e il bambino con il cappello giallo accorse “mi scusi signora, per il suo cappotto color note”. Allora la signora si ritrovò vestita da un gigantesco mantello di Sol. Il bambino, disperato, “mi dispiace signora, per il suo cappellino color stele”. Allora, come per magia, la signora sembrava avere sul capo mille iscrizioni antiche. La signora si attaccò al marito poco lontano, che teneva per le mani un sacchetto di torrone. Il ragazzino, allontanandosi dal fratello dal cappello giallo, riprese a scusarsi, offrendole un pezzo del suo biscotto di pan di zenzero, e disse “mi dispiace, s’ignora!” E la signora scomparve. (Margherita Bertocchi)

~

Un giorno un bambino decise di sfidare l’inpossibile

Ruppe l’obbligata unione tra m e p, inprescindibile!

Tirò forte, ci mise tutto il suo inpegno

la nuova combinazione gli andò particolarmente a genio

sostituì alla noiosa m una più inportante n

E, inpressionante, ne uscì indenne!

(Priscilla Cattabriga)

7. Come l’errore anche l’anomalia, l’eccezione, la difformità da un canone prefissato possono fungere da stimolo per un testo letterario. A lasciarsene ispirare, tra gli innumerevoli altri, lo scrittore argentino Julio Cortázar, il quale ha immaginato che un bambino nascesse con ventisei dita, tredici per mano, e che la sua vita fosse irrimediabilmente condizionata da questo suo tratto distintivo. Ciò è servito da scintilla per accendere l’immaginazione e invitare tutti a cimentarsi con la scrittura di una storia, anche breve, che avesse per protagonista un essere umano a cui è toccato in sorte di venire al mondo con una caratteristica fisica unica e peculiare. Ne riportiamo di seguito qualcuna tra le più significative.

Anna aveva 12 anni ed era nata con una rara patologia. Non aveva il collo. La sua mobilità e agilità nel fare qualsiasi tipo di movimento era ridotta e a causa del suo problema le era impossibile guardare in alto o in basso. Semplicemente andava avanti. Anna viveva in un mondo di staticità. Abitava in una grande città e la sua vita era intrisa di smog e aria inquinata, appiccicosa e soffocante. Aveva una quotidianità regolare, niente di più niente di meno. Niente emozioni forti, niente rischi, niente sbalzi. Tutto regolare, perfettamente inquadrato. Sapeva cosa, come e quando doveva fare ogni cosa. Pensava che se avesse continuato a camminare dritto per dritto lungo il percorso tracciato niente sarebbe andato per il verso storto. Un giorno però, il 10 di agosto, mentre stava vivendo un’altra delle sue normali giornate facendo le solite cose, notò che un paio di suoi conoscenti si stavano dirigendo verso la campagna a trascorrere la notte in tenda. Era qualcosa di decisamente fuori dagli schemi ma decise di seguirli. Raggiunsero la periferia e montarono le tende tutti insieme. Calata la notte tutti all’improvviso iniziarono ad alzare gli occhi al cielo e a esclamare di stupore, a esprimere desideri. Anna non capiva, lei vedeva solo il bosco davanti a sé, l’oscurità della notte e anche qualche rumorino inquietante. Si aspettava che qualcuno si avvicinasse e l’avvertisse, le spiegasse che cosa stava succedendo. Ma nessuno si mosse. Così dopo interi minuti passati nell’oscurità decise di darsi da fare e capirlo da sola. Non poteva di certo semplicemente guardare su come tutti così si ingegnò. Provo a girare su se stessa, a mettersi con le gambe per aria e la testa in giù. Dopo decine di tentativi non aveva raggiunto nessun risultato. Stava per arrendersi e incamminarsi verso casa quando inciampò nel gancio di una delle tende e cadde a terra con un tonfo. Dolorante si girò sulla schiena per provare a rialzarsi quando finalmente capì. Sdraiata sul prato fresco di agosto Anna vedeva le stelle di san Lorenzo. (Michela Lambertini)

Non si sa come ma un giorno nacque un bambino con due cuori. Dalle varie radiografie i medici non avevano notato nessuna anomalia ma quando poi il bimbo nacque, mentre un’infermiera controllava il battito cardiaco sentì un alternarsi anomalo di battiti, tutta preoccupata fece fare un controllo e venne fuori che il bambino era nato con due cuori funzionanti che si trovavano uno sotto l’altro. I medici non riuscivano a credere di non aver notato la presenza di un organo in più ma poi guardando meglio le immagini notarono che uno dei due cuori era nascosto dall’altro ed era anche più piccolo. Quando i medici comunicarono la scoperta ai genitori questi ultimi chiesero se avrebbe portato problemi fisici in futuro. “nono signora, non si preoccupi” rispose il medico, “suo figlio crescerà in salute come gli altri ma con un cuore in più”. Passarono gli anni e i genitori si accorsero che il medico aveva ragione, il bambino era in salute, era forte e malgrado i due cuori non aveva mai avuto problemi fisici di nessun tipo. Il bambino divenne un ragazzo e continuò a non mostrare alcuna anomalia particolare, però un giorno la madre, vedendo che il ragazzo era giù di morale gli chiese: “Tesoro, va tutto bene?” e il ragazzo rispose: “Non lo so mamma, è come se tutte le emozioni che sento siano amplificate, per esempio: se tu ti senti triste, io mi sento devastato, se a te piace qualcosa io la adoro, se a te piace qualcuno, io lo amo e questa cosa non fa altro che aumentare di anno in anno”. La madre sospirò e gli disse che forse si sentiva così a causa di tutti i cambiamenti fisici e psicologici che avvengono con la crescita, ma in cuor suo si chiedeva se questo suo sentire le emozioni in modo amplificato non fosse peggio che l’avere un problema fisico; in fondo un’influenza si può curare ma chi può aiutarti a smettere di provare emozioni? (Amanda Ghini)

Doriano era un ragazzo alquanto superbo, anzi era la rappresentazione stessa della vanità. La sua bellezza angelica, per la quale tutti lo invidiavano, erano i capelli. Aveva dei capelli biondi e crespi che sembravano i raggi del sole riflessi sulle onde del mare, e tutti quelli che avevano avuto il piacere di ammirarlo anche solo per un istante affermavano di non aver mai veduto dei capelli così belli. Doriano provava ovviamente una profonda gelosia per la sua folta chioma lucente, e per questo ogni qual volta si trovava vicino a una finestra, a una pozza d'acqua, a una vetrina o a una qualsiasi cosa sulla quale si potesse specchiare non si lasciava sfuggire l'occasione. Passava interi minuti, e a volte anche ore, toccandosi e sistemandosi la sua meravigliosa capigliatura, anche quando non ce n'era bisogno. A volte si trovava costretto a rifiutare degli appuntamenti e delle uscite con gli amici o con i parenti perché doveva restare in casa a pettinarsi. Questo suo vizio durò a lungo e sembrava proprio non volersene andare. Poi un giorno, dopo essersi sistemato i capelli per l'ennesima, Doriano notò che gli erano rimaste delle ciocche nelle mani. Inizialmente si spaventò a morte, poiché pensò subito ad una calvizie precoce che non aveva alcuna intenzione di affrontare. Ma la realtà era ben più crudele: i capelli si erano staccati dalla sua testa e stavano iniziando a crescergli sulle mani. A quel punto la paura diventò follia e Doriano, non riuscendo a raccapezzarsi di che razza di malattia gli fosse capitata, cadde in depressione e decise di chiudersi nella sua camera dalla quale non uscì mai più. Quando lo andarono a cercare non lo trovarono. Era sparito nel nulla. Al suo posto c'era una voluminosa chioma bionda, grossa quanto un cespuglio. E ancora oggi la gente, ripensando a quell'episodio, commenta ridacchiando: “I capelli di Doriano erano più importanti di Doriano stesso. Non c'è da stupirsi che lui se ne sia andato e loro siano rimasti”. (Gian Paolo Sarpi)

Fu così che il piccolo Tino nacque con due cuori, uno in testa, uno in petto. E da fuori, esattamente non si vedeva. Infatti non gli credeva mai nessuno. Ti inventi le cose, lo rimproveravano i suoi compagni, e piangeva. Tino aveva dieci anni, ed andava all’ultimo anno delle scuole elementari. Aveva gli occhiali e un bel naso. Un giorno, una piccola apetta, cadde dall’albero in cortile. Nessuno dei compagni l’aveva notata. Era caduta in modo gentile, come se fosse scesa con Mary Poppins e il suo ombrello, su una foglia pestata e ripestata. Tino corse verso di lei, tutto merito degli occhialoni arancioni che la videro, e con le guance rosse si fermò a guardarla. Vide che l’apetta non ce l’aveva fatta. Tino pianse, e pianse incredibilmente tanto – in fondo, di cuori due ne aveva. Pianse talmente tanto che si formò un enorme pozzanghera, e poi un fiume, e poi un lago, un mare intero di lacrime. Poi si alzò, e raccolse l’apetta pelosa da terra. Decise che si sarebbe ricordato di tutte le apette del mondo, e se non sarebbe bastato, si promise di donare uno dei due cuori alla persona che sarebbe stata capace di non farlo mai piangere. Fu così che Tino raccontò sempre la storia ai nipoti, di come si fossero conosciuti lui e la nonna. (Margherita Bertocchi)

8. A chiusura del primo modulo del laboratorio di quest’anno, abbiamo proposto ai partecipanti un lavoro di gruppo, con l’obiettivo di realizzare la scrittura collettiva (per quanto “a distanza”, via Meet) di un componimento poetico. Non però di uno qualsiasi: lo stimolo letterario è venuto stavolta (come già per un esercizio dell’anno passato) da un autore tra i più eclettici e singolari del Novecento italiano, ovvero Fosco Maraini. La sua “metasemantica” (l’arte cioè di veicolare significati attraverso parole che non ne hanno alcuno, affidando al loro esclusivo suono la capacità di suscitare immagini, paesaggi, sensazioni) è stata la molla che ha fatto scattare ancora una volta la fantasia dei biblioscrittori. I quali, unendo le loro forze immaginative, hanno messo in fila versi evocativi e potenti, dando prova ulteriore, semmai ce ne fosse ancora bisogno, della loro inventiva.

~

Il fistrillo è un crillo argillo.

Ama tonfare ed ogni volta che citonfola gli viene un cisnuffo al baruffo.

Il fistrillo ha la coda virta e torta, longasquata e piromanente

Certo che come crinnale è crinnovolente!

Ha gli llioggi giallosiridati, serpini ed anfitriati.

Li chiude emmette luminosi spalanchiati.

E’ squamoso, iritto e tortoso, pare un dragorso a riposo

Ha il capo vispo e raspo, inverdito

Come un lupillo accinnito.

(Arianna Serboli, Benedetta Trisolino, Amanda Ghini e Caterina Zamboni)

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Passeggiando per la forba,

assaggiando una fresgola rossa,

incappo nel verdiero

in un ramente di argioni.

Sento fruschinare e venteggiare

le ferdi nei cespugli

e un pensiero frintante

mi passa per la mente:

che bello natureggiare!

(Giulia Boari e Giulia Tori)

~

In una turpida giornata rabbuggiosa

Mentre l’aria si faceva frudosa

Eccola arrivare catinellante

Con un ritmo ritullante

Pliccava su un rottame

Scornigliava il tegolame

Sulla visaglia spigheggia

Mentre il cielo ormai plumbeggia.

(Eleonora Sartori, Emma Metastasio, Gian Paolo Sarpi e Gaia Ravegnini)

~

Pliniuosa e uggiasca

Plombare non rasca

Ancora pliù giù

Un urlar chiù.

Malversa è quella imprista

quella che sbattona.

senza un motifsco.

Di una sensazione malfendente e lameggiante

Smarmora acquidiosa una tronantica di lacrime,

che sintozza muta, atrorrosamente brucia.

Vorrei solo cartonare una risposta di lunelle.

Mi piagio strocciando grigiunta in un prato

Guardo saperpraso, riova mi è mancato

La mente barsuffa collaspa scinappia

Incristata schiumisce senza che lo sappia

(Margherita Bertocchi, Michela Lambertini, Nicole De Socio e Priscilla Cattabriga)

9. Il primo esercizio del secondo modulo, imperniato sul racconto e sulle principali tecniche narrative, ha preso spunto da un grande autore contemporaneo: Luis Sepúlveda, purtroppo scomparso da un paio di anni a causa della pandemia. In un suo testo, una sorta di resoconto di viaggio dal titolo “Patagonia Express”, Sepúlveda racconta di una serata trascorsa intorno a un fuoco, in un clima di convivialità, durante cui un gruppo di persone del luogo, conosciute nel corso del viaggio, si “ingarella” in un’appassionante gara di bugie, essendo i patagoni, a loro dire, “il popolo più bugiardo del mondo”, senza tuttavia confondere “la bugia con l’inganno”. Ai partecipanti abbiamo chiesto di immaginarsi intorno a quel fuoco, in mezzo a quella gente, e partecipare a quella gara con una propria bugia, del tipo “non ho studiato perché…” Le fantasie dei biblioscrittori, stimolate nella capacità di immaginare situazioni di finzione (immancabile per chiunque voglia approcciarsi alla narrativa), hanno avuto di che sbizzarrirsi.

Scusi prof, ieri non ho avuto la possibilità di studiare, perché la sfortuna mi ha proprio preso in pieno. Dopo scuola stavo tornando a casa in motorino, mentre mi trovavo sui viali ad un certo punto un bambino della macchina affianco che si stava sporgendo troppo dal finestrino cadde sulla strada. Distratta dalla scena per sbaglio investì una signora che va a finire dentro un cespuglio, rovinando il lavoro di tre ore di un giardiniere. La madre del bambino ancora non si era accorta che egli non fosse più in macchina, allora sono scesa dal motorino e mi sono messa a correre per recuperarlo, lo trovai ignaro, divertito e senza un graffio in mezzo alla strada. Con grande agilità lo presi in braccio e tornai indietro sul luogo dell’incidente; ma davanti mi trovai la polizia, l’ambulanza, un giardiniere arrabbiato e una mamma che mi accusava di aver rapito il figlio. In uno stesso giorno mi sono beccata tre denunce, una multa da 200 euro e ho dovuto passare tutta la notte in centrale. (Giulia Giusti)

Buonasera Prof.ssa, Le invio questa mail per giustificarmi e per chiederLe di spostare la mia interrogazione di latino a data da destinarsi. Deve capire l’improbabile sventura che mi è capitata e le drammatiche conseguenze che questa avrà sul mio futuro da scolara. Come Lei sa bene, la mia vista scarseggia, e non poco. Proprio quest’oggi pomeriggio camminavo per Via d’Azeglio quando mi cascarono gli occhiali rimbalzando sull’asfalto lontani dal mio ristretto campo visivo. Così nella foga della ricerca inciampai su qualcuno che, come scoprii successivamente, era un chiromante. Egli non provò alcuna pietà nei miei confronti, pensando che l’avessi fatto apposta, abituato com’era alla scortesia dei pendolari della via. Non feci in tempo a giustificarmi che questo mi maledisse con crudeli parole, che però, ovviamente, dette dalla bocca di qualcuno sicuramente provvisto di terzo occhio, si avverarono all’istante. Vedete, egli, maledicendomi, mi tolse dalla memoria tutte le cose belle che avevo studiato nelle ultime ventiquattr’ore e queste ovviamente includono tutte le nozioni riguardanti il Celebre Autore latino che stiamo studiando (di cui sfortunatamente non ricordo il nome). Come può anche Lei notare la situazione è tragica e mi rincresce assai di non poter in alcun modo affrontare l’interrogazione. Forse conosce qualche rimedio al mio problema? Le porgo i miei più cordiali saluti, CZ (Caterina Zamboni)

E’ un disastro. E’ la terza domanda consecutiva a cui non so rispondere. “Non hai studiato, vero?” mi chiede il professore di fisica, un po’ deluso. Sto per rispondergli, poi mi viene un’idea: è folle, ma in fondo non ho nulla da perdere, ormai. “No, no, è che…” comincio a dire, poi barcollo verso destra e per poco non cado. Mi riprendo rapidamente e fingo che niente sia successo, ma so che il prof. mi ha visto. Infatti, mi chiede: “Tutto bene?” A quel punto, con la faccia più dispiaciuta che riesco a formulare, rispondo: “Si, si. Mi scusi davvero se non le sembro molto in forma questa mattina, ma sono reduce da una giornata che ha dell’assurdo. Incredibile da dire e da credere, ma ieri ho dovuto soccorrere una persona per strada, mentre tornavo da scuola. Avevo già gli appunti di fisica in mano, pronta a ripassare persino in autobus, quando una signora alla fermata si è sentita male ed è svenuta. Ero da sola e subito l’ho soccorsa, salvandole la vita con qualche manovra istintiva. Poi ho chiamato l’ambulanza e, dato che ero l’unico testimone presente, mi è stato chiesto di andare con lei. Potevo forse rifiutare? Dopo mezz’ora di interrogatorio da parte dei medici, mi è stato riferito che la signora aveva una rara malattia e aveva immediato bisogno di una trasfusione di sangue. Sfortunatamente, avevano finito le scorte del suo gruppo sanguigno e, pensi lei che coincidenza, era proprio il mio. Avrei forse dovuto lasciarla morire? La mia coscienza mi ha obbligato e mi hanno tolto ben tre litri di sangue. Non sto proprio in piedi, oggi. Forse dovremmo posticipare l’interrogazione, non crede?” (Giulia Tori)

Ascolti prof, sono desolata ma devo confessarle che non ho la minima idea di ciò che dovrei dirle adesso. Sicuramente prenderà provvedimenti ma non la biasimo, non si preoccupi, faccia quello che deve. Credo soltanto che se sapesse il motivo per cui non sono riuscita a studiare ieri, non dico due ma almeno un occhio riuscirebbe a chiuderlo. Ieri pomeriggio ero seduta davanti al libro di… ah sì, fisica, giusto. Si esatto ero seduta davanti al libro di fisica e stavo per aprirlo. Lo giuro ero pronta ad aprirlo: avevo ordinato la scrivania, bevuto un caffè ed ero pronta per iniziare a studiare ecco. Ma non appena ho sfiorato la copertina ho sentito il telefono suonare. Sa com’è prof, si risponde sempre al telefono: metta caso che fosse stata mia madre che aveva bisogno di me per una commissione, chi la sarebbe stata a sentire dopo? Non appena ho alzato la cornetta del telefono ho subito sentito la voce in singhiozzi di mia cugina che mi chiedeva disperatamente di andare da lei, che era urgente e che dovevo affrettarmi. Sono corsa. Sa prof mia cugina non scherza mai, quando parla di un urgenza allora dice sul serio. Sono arrivata a casa sua trafelata dopo aver corso per tutta la città e l’ho trovata sdraiata per terra, sul tappeto di camera sua. Le ho immediatamente chiesto cosa le fosse successo e mi ha risposto in lacrime che si sentiva giù. Le ho chiesto perché non si stesse alzando, se si sentiva giù bastava mettersi in piedi. Ho provato a tirarla per una mano ma niente da fare era giù. Allora mi sono resa conto che l’unica cosa che mi restava da fare era un tiramisù. La nostra città è piccola prof, forse lei che abita in centro non lo sa, ma le voci di corridoio dicono che la moglie del fioraio vicino alla chiesa è riuscita a risollevarsi l’umore con questo dolce, se si chiama così ci sarà un motivo dico io. Quindi mi sono affrettata e sono andata a comprare tutti gli ingredienti per cucinarlo. Ci ho messo davvero un sacco prof, al controllore del green pass davanti all’ingresso del supermercato si era impallata l’app. Dopo aver finito le commissioni sono tornata a casa e ho fatto a mia cugina quel benedetto tiramisù: le è piaciuto e si è riuscita ad alzare da terra. Prof mi creda, mi dispiace se ora non ho idea di quale sia la formula della velocità ma può credermi quando le dico che ne ho visto una dimostrazione pratica quando mia cugina sentendo l’odore del caffè si è alzata di scatto. Penso valga, no? (Michela Lambertini)

Dunque, l’altro ieri mi trovavo comodamente seduta alla scrivania, intenta a scrivere per evitare di trovarmi impreparata; tuttavia, mentre prendevo appunti sentivo un rumorino a dir poco strano: pareva un ronzio acutissimo, probabilmente un insettino con un’ala storpiata ma, girando la testa non scorgevo nulla. Mi voltai verso il foglio scribacchiato, e mi accorsi che non c’era nessun insettino: era la mia penna! A quel punto la penna, con un’enorme forza, si divincolò fuori dalla mia mano, gridando con la sua flebile voce d’inchiostro: “Perbacco, si può sapere cos’hai da tirarmi tanto? Sono capace di scrivere anche se mi tieni con più leggiadria, e non come se stessi afferrando un badile! Da sola avresti una pessima grafia, fortuna che ci sono io, mica per niente vincitrice del concorso di calligrafia per Penne a Sfera!” E, detto ciò, la penna tornò immobile, il ronzio scomparve. Allora, stupita dalla stizza della penna (credevo di possedere una penna più garbata di così!), continuai a scrivere. Ma ecco che nemmeno i miei appunti mi lasciano pace, ed ecco che le parole un po’ storte e piene di sbavature si staccano come una miriade di formiche nere, zampettando fuori dal foglio prese da una fretta improvvisa. Ed io mi ritrovo con il foglio in bianco, una penna dalla luna storta ed il compito mancante! (Benedetta Trisolino)

10. Tutte le storie, a parere dello psicologo e narratologo Jerome Bruner, possono tradursi in un “what if”, in un “metti che”, in un “cosa succederebbe se”. Tra gli esempi più lampanti saltatici in mente, “La metamorfosi” di Kafka: cosa succederebbe se un uomo si svegliasse una mattina trasformato in un enorme insetto? La risposta non è, in fondo, che il racconto stesso. Lo stimolo in questione è consistito dunque nel creare un’ipotesi narrativa di questo tipo. Non rispondendo, però, alla domanda che ognuno si è posto, bensì a quella di qualcun altro, cedendo la propria e ricevendone una da un proprio compagno. Ecco alcuni dei “what if” con relative risposte narrative.

Cosa succederebbe se i vestiti fossero vivi? 06:15, in ritardo come al solito. Allungo la mano verso il cassettone per tirare fuori qualcosa da mettere oggi. Questo no, questo no, questo no. “È sempre così scortese. Non siamo mai abbastanza per lei e dire che ci ha scelte tutte lei. E poi non si prende neanche la briga di ripiegarci”. “Che lagna che siete, sono io qui la vittima. Non ho mai niente da mettere perché voi siete sempre le stesse”. Aperto il cassettone di sotto vaglio tra i pantaloni e ne tiro fuori un paio. “Ecco voi sì che mi piacete, siete particolari e vintage. Però anche voi vi ci mettete. Mi tocca usare sempre la cintura e lo sapete quanto odio usare la cintura”. “Tu la odi? E noi cosa dobbiamo dire che ci soffoca per un giorno intero”. “Perché mi odiano tutti?” piagnucola allora la cintura. “Perché sei brutta!” diciamo tutti in coro contro di lei. Alla fine infilo la testa nella felpa della scuola. Lei ormai una veterana, fiera ma logora. “Dici tanto di voler essere stilosa” si sentono le camice dall’armadio chiuso in fondo alla stanza, “ma poi metti sempre la stessa brutta felpa”. (Caterina Zamboni)

Cosa succederebbe se trovassi un uscita dalla nostra realtà? La ragazza stava camminando a passo svelto tra le viottole affogate nella nebbia della sua città. La stanchezza gliela si leggeva in volto, o meglio negli occhi. Aveva l'espressione segnata da profondissime occhiaie grigiastre, non dormiva da giorni. Aveva i capelli sporchi raccolti alla bell’e meglio e non si era nemmeno preoccupata di vestirsi, uscendo con la tuta del pigiama. Portava ovviamente la mascherina FFP2 ormai obbligatoria ovunque e veloce ma silenziosa si stava dirigendo di soppiatto verso il primo negozio di elettronica del suo paese. Il cavo LAN della connessione che le permetteva di seguire la DAD si era spezzato e ne aveva bisogno subito uno nuovo, ma non poteva restare fuori a lungo, sapeva che da li a qualche minuto sarebbe scattato il coprifuoco. Il campanello informò la commessa della sua entrata nel piccolo negozio. Quella la guardò con fare annoiato continuando a masticare la sua gomma, non le disse nulla. Sempre lentamente la ragazza si diresse nel reparto cavi e non appena trovò ciò che cercava lo afferrò con poca convinzione: ci aveva messo meno di quel che pensasse e sapeva che quei pochi attimi di libertà sarebbero finiti a breve, costringendola a tornare nelle quattro mura che conosceva a suo malgrado cosi bene. Presa nei suoi pensieri si lasciò cadere il prezioso oggetto fra le mani, che finì sotto allo scaffale, fuori dalla sua vista. La ragazza si chinò e guardo sotto di esso per cercare di riafferrarlo. Quando finalmente sentì la plastica fredda e lucida del rivestimento sotto le sue dita percepì improvvisamente il vuoto sotto le sue ginocchia e non vide più nulla. Non appena riaprì gli occhi, e la testa finì di girarle vorticosamente si alzò faticosamente in piedi e percepì per la prima dopo tanto l'aria che le entrava liberamente nei suoi polmoni e i profumi delle cose, un odore pungente ma liquido di libertà. (Michela Lambertini)

Cosa sarebbe successo se fossi andata a scuola quel giorno? Avrei potuto vederla un’ultima volta. Trascorrere forse l’ultimo giorno normale della mia vita, arrivare tardi con il prof che sta già spiegando e beccarmi una nota. Parlare tutto il tempo con lei di cosa vorrebbe fare in estate, dei suoi progetti, dei suoi sogni. Scappare da scuola e tornare tardi a casa solo per non far finire quella giornata. Cosa darei per tornare indietro e andare a scuola quel giorno. (Camilla Graziani)

Cosa succederebbe se riuscissi a leggere nella mente delle persone ma non potessi più comunicare con loro? Ammettiamolo, tutti vorremmo poter leggere nella mente delle persone per sapere cosa pensano di noi e degli altri. E se noi effettivamente potessimo farlo ma poi non riuscissimo a comunicare più con loro, cosa succederebbe? Già me lo immagino, io e la mia migliore amica Sofia a parlare con le persone che non ci stanno simpatiche e poter leggere i loro pensieri ma senza potergli parlare, un sogno, risate continue. Ma se invece fossero persona a cui vogliamo bene, cascherebbe il mondo, perché amicizie, relazioni e rapporti potrebbero essere rovinati indelebilmente. Io per esempio darei di matto, brucerei tutto e mi butterei dalla finestra. (Nicole De Socio)

Cosa succederebbe se mi risvegliassi nel corpo di un’altra persona? Mi svegliai sentendo un enorme mal di testa, frastornata da un incubo di poco tempo prima. Andai allo specchio per darmi una rassettata, ancora con gli occhi pesti e semichiusi dal sonno, tuttavia fui presto costretta a spalancarli. Sembrava impossibile, ridicolo eppure pareva vero. Allo specchio non riuscivo a distinguermi, il volto non corrispondeva al mio per qualche strano motivo. Ero a tutti gli effetti un’altra persona, eppure avevo conservato la mia mente. Cercando di credere con tutta me stessa quello fosse semplicemente un sogno singolare cercai di non dare troppo peso alla cosa, del resto tutti i sogni sembravano reali. Anzi, osservai attentamente il corpo nel quale mi trovavo: era (o ero) un ragazzo, a giudicare dalla statura sui sedici anni, abbastanza magro con i capelli biondo sporco. Non c’è che dire: un sogno alquanto singolare. A colazione compresi il mio nome, durante quella che mi sembrava una conversazione surreale: Ben, dopodiché andai a quello che doveva essere un liceo sovrappensiero. Così sovrappensiero che non notai il frastuono di un clacson. Mi girai terrorizzata, non avevo neanche la voce per urlare, accadde così improvvisamente da non lasciarmi il tempo di respirare… Di colpo mi svegliai, la fronte imperlata di sudore. Alla fine era tutto un sogno, andai a far colazione, felice di trovarmi nel mio vecchio corpo; ma la felicità durò poco quando, ascoltando distrattamente la radio, sento una notizia che mi fa sussultare: “Giovane studente rimasto investito ieri mattina, si indaga ancora per l’identità dell’autista”. (Benedetta Trisolino)

11. Parlando di racconti non abbiamo potuto sorvolare su quelle forme narrative che ne racchiudono in qualche modo la quintessenza, il minimo comune denominatore: i racconti brevissimi. Tre, in particolare: “Vendesi scarpe da bambino, mai usate” di Hemingway; “Quando si svegliò, il dinosauro stava ancora lì” di Monterroso; “L’ultimo uomo sulla Terra sedeva da solo nella sua stanza: qualcuno bussò” di Brown. Riflettendo su ognuno dei tre mini-racconti, e chiedendoci come mai possono a buon diritto considerarsi tali e non invece semplici affermazioni, abbiamo individuato alcune delle caratteristiche peculiari della forma racconto. Tra cui, ad esempio, il fatto che ogni racconto è la punta di un iceberg, il detto che affiora da un non-detto sottostante, tanto più vasto quanto più evocativa è la parte emersa. A partire da ciò i biblioscrittori si sono cimentati con la scrittura di un loro racconto brevissimo, non più lungo di una riga. Ne riportiamo alcuni, punte sottilissime di iceberg giganteschi.

Dopo l’incidente uscì dalla macchina e vide il suo cadavere. (Giulia Giusti)
Quando tornò in camera, mise la colazione sotto al letto. (Arianna Serboli)
L'odore di gelsomino arse il quaderno di matematica. (Michela Lambertini)
Finiva di dipingere lo sfondo, quando un’arancia cadde dal tavolo. (Margherita Bertocchi)
All’ora di cena, si svegliò. La luce lo accecò immediatamente. (Giulia Tori)
Quel giorno lo specchio cambiò l’immagine riflessa. (Camilla Graziani)
La casa un giorno si fece silenziosa e il fantasma traslocò. (Amanda Ghini)

12. Inverti, aggiungi, elimina, estremizza, minimizza, fondi, trasforma. Sono le sette “operazioni” tramite cui si può dare vita a una storia interessante. Prese da sole non dicono granché, ma applicate a situazioni concrete consentono di ripensarle, ridefinirle, sovvertirle e renderle magari imprevedibili. “Comandi vuoti”, si chiamano non per niente. Usarli e “riempirli”, in qualche modo, è stato lo stimolo per l’esercizio di scrittura conclusivo di questo secondo modulo. La circostanza a cui applicarla? Una festa, nel senso più lato del termine. I ragazzi hanno ben accolto l’invito (è il caso di dirlo) e ne hanno scritte – e lette – delle belle!

Mi verso un po’ di punch in un bicchiere, mentre continuo a ballare al ritmo della musica di sottofondo. A mio parere, è la miglior festa a cui io abbia mai partecipato, anche se non ho mai partecipato ad una per ansia delle masse di gente. Porto il bicchiere sul tetto del palazzo che ho riservato, e lo verso nella bara del mio cadavere. Perché no, una festa per il mio funerale con me come unica partecipante non è poi così male, e non c’è neanche nessuno a fare piagnistei vari per la mia morte. Mi siedo sul bordo del tetto, sventolando le gambe nel vuoto e osservando il tramonto, e alzo un po’ il volume della musica per riuscire a sentirla fin lassù. (Arianna Serboli)

Apro la cassetta della posta e trovo un biglietto che sembra uscito da una macchina del tempo: è ingiallito, è ruvido al tatto e di carta spessa, è chiuso da un sigillo di cera che ha sopra inciso il simbolo di un tulipano.
Curiosa, lo apro e vengo immediatamente colpita dalla calligrafia eccessivamente ricurva e piena di ghirigori: potrebbe benissimo essere l’opera centenaria di un monaco amanuense. Ancora ferma nel bel mezzo del giardino, inizio a leggerlo. “Egregia signorina Albani, dell’illustrissima famiglia degli Albani, a capo dell’intero casato degli Albani. Sarei onoratissima di invitarvi a desinare insieme a noi, in occasione del mio compleanno, che si terrà in data odierna, alle otto di sera. Spero umilmente che accettiate il mio invito e vi attendo con ansia come ospite d’onore. In ultimo, comunico che il tema della festa è ottocentesco, curato in ogni minimo dettaglio solo ed esclusivamente per allettare il vostro animo. Cordialmente mi congedo, la vostra più amorevole amica.” Finisco di leggere la lettera e mi accorgo di stare sorridendo incredula, incerta se per l’assurdità della situazione o per la consapevolezza di non avere la minima idea del mittente di un simile invito. Ancora di stucco, mi rigiro il biglietto tra le mani. Infine, lo volto e vedo inciso un indirizzo. Non so davvero a cosa mi porterà questa serata, ma sono sicura che ci sarà da divertirsi. (Giulia Tori)

Esco di casa di corsa. Sono in ritardo e ho paura che Jen si arrabbierà molto. Fortunatamente le strade sono vuote e silenziose, non vedo nessun in giro. Parcheggio la macchina non molto distante dal luogo della festa. Mentre mi avvicino però non sento niente, tutto tace. Entro in questa villa e non trovo nessuno, le luci e la musica sono spente. Esco in giardino e trovo un gruppo di persone vestite di nero attorno alla piscina. Stanno recitando una formula in coro e l’acqua emette un bagliore strano. La mia amica Jen è incatenata al centro della piscina. A un certo punto l’acqua inizia a salire, le altre persone si allontanano e Jen sprofonda. (Camilla Graziani)

“Non mi piacciono le feste, te l’ho già detto” borbottai, cercando di declinare l’invito, ma Sofia sembrava non voler gettare la spugna. “Sono sicura che ti piacerà, è fatta su misura per te!” Con quella frase, Sofia infilò l’invito nel mio zaino ed ignorando le mie continue proteste fuggì in classe, proprio mentre suonava la campana dell’ora successiva. (Il giorno dopo…) Ero in ritardo. Non mi piacevano le feste. Quei luoghi così rumorosi, affollati, quasi soffocanti, in cui si è costretti a fare nuove conoscenze… erano un incubo per me. Ahimé, di mettere un vestito proprio non ne avevo voglia! Per non parlare dei tacchi… quelle scarpe così incredibilmente scomode, ma che per un qualche motivo tutti si ostinavano ad indossare. Afferrai un paio di scarpe da ginnastica e le infilai velocemente ai piedi. I tacchi non avrei proprio potuto sopportarli! Ma quando entrai nella sala, con l’abito più elegante che avessi, rimasi sbalordita. Nessuno indossava un vestito. Erano tutti in costume. Era forse una festa in piscina? In preda al panico, presi l’invito dalla borsa per controllare il cosiddetto “dress code obbligatorio”, la solita inutile formalità. Il termine “elegante” appena sotto la scritta confermò il mio abbigliamento. Eppure, nessuno sembrava elegante in quella sala. Il mio sguardo si posò sui piedi degli invitati. Indossavano tutti tacchi a spillo. Guardai le mie scarpe da ginnastica, sospirando. Mi stavano forse prendendo in giro? Ancora più infastidita, mi accorsi che nessuno ballava. Erano tutti fermi, immobili gli uni di fronte agli altri. Altro che rumori, era la festa più silenziosa a cui avessi mai partecipato. “Così ti piace la festa?” Chiese Sofia, facendo capolino nella sala. (Chiara Gallo)